Storia delle lunchbox

Il packaging della "schiscetta"

1 Novembre 2020

Gavetta, marmitta, schiscetta. Sono alcuni dei nomignoli in dialetto con cui abbiamo rinominato le confezioni portavivande, in inglese note come lunchbox.

Un oggetto che da almeno due secoli accompagna le pause pranzo di adulti e bambini. Divenuto talmente iconico da meritare menzioni letterarie, come in Marcovaldo, dove Italo Calvino gli dedica un’intera novella, intitolata per l’appunto La pietanziera.

Col passare degli anni le lunchbox si sono evolute, perfezionandosi da un punto di vista funzionale (alcune sono dei veri capolavori di ingegneria come questa), ma anche estetico. Tanto da diventare un accessorio di tendenza, che strizza l’occhio alla moda e al design.

Una lunchbox minimalista e ultra-tech, dell’azienda Fittbo

Le lunchbox sono diventate accessori di tendenza, che strizzano l’occhio alla moda e al design

Qualche anno fa, riviste come The Atlantic e Smithsonian Magazine hanno provato a ripercorrerne la storia. Sembra che le prime lunchbox siano apparse intorno al XIX secolo: erano di metallo, rotonde e composte da più ripiani. Servivano a contenere non solo il cibo ma anche le posate.
Le utilizzavano prevalentemente gli operai che, dovendo consumare il pranzo in cantiere o in fabbrica, cercavano di proteggerlo da urti e mantenerlo al caldo.

Le prime lunchbox apparvero intorno al XIX secolo. Erano in metallo, rotonde e composte da più ripiani

All’inizio del 1900 le lunchbox erano ormai diffuse tra la popolazione e alcune aziende iniziarono a intuirne il potenziale creativo. Ci fu un’esplosione in un segmento particolare, quello dei ragazzi, legato ai pranzi da portare a scuola.

Nel 1935, venne lanciata sul mercato la prima lunchbox a tema Mickey Mouse, che inaugurò ufficialmente la tendenza a decorare i portapranzo con stampe provenienti dal mondo dei fumetti, dei cartoni animati, della musica e del cinema.

Lunchbox ispirata a Mickey Mouse

Negli anni Ottanta le lunchbox in metallo cominciarono a cadere in disuso. Secondo alcuni collezionisti a decretarne la fine furono le lamentele delle mamme, preoccupate che i ragazzi potessero utilizzarle a scuola come armi. Più probabilmente il motivo fu principalmente economico. Verso la metà degli anni Ottanta cominciava infatti a diffondersi l’utilizzo della plastica stampata, una scelta economica, resistente e pratica.

Negli anni Novanta cominciarono a fare capolino le prime versioni in tessuto: nello specifico il neoprene (il materiale utilizzato per realizzare le mute da sub) particolarmente apprezzato perché riduceva l’effetto condensa dato dal vapore e, in più, era semplice da lavare.

Un portapranzo in tessuto lavabile

Negli anni Novanta cominciano a fare capolino le prime lunchbox in tessuto

A partire dai primi Duemila hanno cominciato a diffondersi versioni sempre più sofisticate delle lunchbox, fino all’esplosione del fenomeno bento-box, i famosi portapranzo giapponesi a più scomparti.

Siti come Monbento permettono di scegliere forma e colore del proprio portapranzo e personalizzarlo a piacimento. Perché non solo lo stomaco, anche l’occhio vuole la sua parte.

Bento-box dell’azienda Mon Bento

Oggi che l’introduzione dello smartworking ha ridotto la necessità di portarsi il pranzo da casa, c’è chi si chiede giustamente quale sarà il destino di queste scatole che hanno attraversato un paio di secoli.

Secondo un articolo di The Grocer, siamo ben lontani dal vederle scomparire. Anzi, un sondaggio condotto da Harris Interactive mostra come il 57% degli intervistati (tra un campione di lavoratori che vanno in ufficio abitualmente) ammette che l’emergenza Covid-19 li abbia resi più propensi a portare il pranzo da casa.

Quella dei pasti preconfezionati in contenitori ermetici sembra una soluzione sicura, che riduce al minimo le contaminazioni. Che possa considerarsi un’alternativa anche per ristoranti e mense che hanno visto ridursi il numero di coperti negli ultimi mesi?

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