Cosa significa se un pack è kosher o halal?

Esistono diversi sistemi per aiutare i consumatori a fare scelte consapevoli e coerenti col proprio stile di vita o il proprio credo

10 Novembre 2022

Le abitudini alimentari sono molto condizionate da fattori come posizione geografica, stagionalità, ma anche etnia e dettami religiosi.

Nell’industria del packaging, soprattutto nell’ambito food&beverage, è necessario garantire informazioni precise e trasparenti ai consumatori, per aiutarli a fare scelte consapevoli e che rispecchino i loro valori e stili di vita.

I dettami imposti dalle diverse religioni richiedono specifiche procedure di approvvigionamento e trattamento delle materie prime, che possono impattare anche sui requisiti di sicurezza alimentare. Si tratta di informazioni tecniche molto specifiche che vengono “tradotte” al consumatore sotto forma di etichette e certificazioni. Tra le più note e utilizzate ci sono quelle Kosher e Halal.

I dettami imposti dalle religioni richiedono specifiche procedure di approvvigionamento e trattamento delle materie prime. Queste informazioni vanno a finire nell’etichetta

In ebraico la parola kosher o kasher significa “conforme alla legge” e indica che un alimento è stato prodotto in ottemperanza ai principi alimentari prescritti dall’Antico Testamento.

I cibi etichettati come kosher hanno un vasto mercato. Oltre che dagli ebrei osservanti, vengono spesso consumati da musulmani, indù, vegetariani, vegani e persone con intolleranze alimentari che si affidano alle scrupolose garanzie di questa certificazione, considerata tra le più affidabili nell’analisi dei rischi sugli ingredienti utilizzati.

Alcuni dei principali simboli che contraddistinguono le certificazioni OU Kosher

La maggior parte delle certificazioni kosher in tutto il mondo è effettuata dalla Orthodox Union Kosher, nota anche come OU Kosher. Con sede a New York, l’agenzia certifica quasi il 70% degli alimenti kosher in tutto il mondo.

Il rischio per i brand orientati verso questo mercato è quello di apparire troppo “esclusivi” o essere relegati allo scaffale dei prodotti etnici. Alcuni stanno provando a progettare imballaggi che riescano a valorizzare la tradizione, essere coerenti ai dettami religiosi, ma al contempo essere appetibili anche per altre categorie di consumatori.

È quello che ha fatto Matzo Project rendendo “cool”, come scrive il Brooklyn Magazine, un prodotto super tradizionale come il matzah, il pane non lievitato tipico della cucina ebraica.

Il packaging kosher di Matzo Project

Un altro ottimo esempio è la linea di vini kosher Unorthodox disegnata dall’agenzia Brandever.

L’etichetta dei vini kosher Unorthodox

La certificazione halal si applica invece ai prodotti conformi ai dettami religiosi musulmani. Nell’Islam, halal indica tutto ciò che è lecito in contrapposizione al termine, ḥarâm, ciò che è proibito.

Il mercato di riferimento conta circa un miliardo e mezzo di praticanti musulmani e dunque potenziali consumatori, ed è destinato a raggiungere i due nel prossimo decennio, con un fatturato mondiale pari a circa 800 miliardi di dollari. Questo spiega come mai diverse catene della GDO richiedano alle aziende produttrici prodotti e packaging certificati halal.

Oggetto di valutazione degli imballaggi certificati halal sono: additivi, inchiostri, trattamenti superficiali (nobilitazione, plastificazione, etc.), ma anche lo stesso processo di realizzazione dell’imballaggio. Gli agenti utilizzati nelle materie plastiche o nell’alluminio sono di origine animale e questo è problematico visto che la certificazione halal prevede l’esclusione di derivati suini. Per ottenerla, sarà necessario utilizzare agenti, additivi e inchiostri di origine vegetale.

Il mercato di prodotti certificati halal è destinato a crescere, raggiungendo un fatturato di circa 800 miliardi di dollari nel prossimo decennio

Non sfugge alla valutazione neanche il packaging riciclato, perchè non è da escludere che, nelle sue vite precedenti, possa essere stato in contatto con prodotti ḥarâm.

Come spiega IlSole24ore, la cosmetica halal è uno dei mercati che cresce più velocemente: il report “State of the global islamic economy 2014-15” di Reuters prevedeva che nel 2019 i musulmani avrebbero speso circa 73 miliardi di dollari in prodotti di bellezza, oltre 30 miliardi in più rispetto a quanto hanno speso nel 2013.

In Italia, nel 2016, Cosmoprof ha ospitato l’innovativo progetto HALAL COSMETICS: from production to sales, anteprima a livello mondiale di un’area espositiva – all’interno del padiglione dedicato alla cosmesi naturale – riservata ad aziende nazionali e internazionali produttrici o distributrici di prodotti certificati halal, realizzato in partnership e con la supervisione dell’ente di certificazione halal italiano Whad (World Halal Development).

La francese Khadija Cosmetics produce prodotti body care e make up leciti, quindi non testati su animali e che abbiano effetti positivi sulla comunità e sull’ambiente.

Immagine di REUTERS/Darren Staples (BRITAIN – Tags: SOCIETY RELIGION BUSINESS)

La svizzera United Cosmeceuticals, che fa capo a United Technologies, invece, è nata nel 2008 con l’intento di lanciare prodotti skin care di fascia alta, altamente innovativi, e cinque anni dopo ha debuttato con il marchio Evenswiss che nel 2015 ha ottenuto la certificazione halal. I loro prodotti anti aging erano già molto apprezzati nei paesi musulmani, ma sono venduti molto anche in Asia (Malesia, Indonesia, Emirati).

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