I packaging dell’antico Egitto
Scatole di legno, cesti di papiro e anfore di terracotta. Impressionano ancora oggi per la loro funzionalità e per la grande attenzione ai dettagli.
Un recente articolo del New York Times ha puntato il dito sulle criticità e gli equivoci che si nascondono dietro lo smaltimento delle confezioni cosiddette “biodegradabili” e/o “compostabili”.
La tesi dell’articolo è che i materiali non bastano: nonostante i tentativi sempre più diffusi di rinunciare al PET o a qualsiasi altro derivato del petrolio, un packaging “sostenibile” necessita di specifiche condizioni affinché lo smaltimento avvenga senza (un vero) impatto sull’ambiente.
“È una cosa difficile da capire, non solo per il consumatore, ma anche per molti scienziati” sostiene Jason Locklin, direttore del New Materials Institute dell’Università della Georgia.
Termini come biodegradabilità e compostaggio fanno riferimento a processi chimici la cui differenza è piuttosto sottile. Il primo descrive la capacità di alcuni materiali di degradarsi attraverso processi enzimatici (azione di batteri, funghi o altri microorganismi) che trasformano il materiale fino a farlo diventare altro (acqua o gas).
Il compostaggio è invece un processo aerobico controllato dall’uomo, attraverso cui il materiale organico umifica e produce del fertilizzante naturale, come il terricciato (o compost).
C’è bisogno di determinate condizioni affinché lo smaltimento avvenga senza un reale impatto sull’ambiente
In un caso o nell’altro, questi materiali si scompongono in tempi diversi, anche a seconda di come sono stati realizzati e della materia di cui sono composti. Soprattutto hanno bisogno di un sistema di riciclo dedicato, altrimenti inquineranno esattamente come altri materiali.
Nel frattempo le etichette “biodegradabile” o “compostabile” compaiono sempre più spesso sui prodotti e sugli scaffali dei supermercati. Eppure l’effettivo livello “di degradabilità” di una confezione dipende dalla tipologia di materiali utilizzati, e può variare molto.
Le bottiglie in bioplastica (aka acido polilattico, o PLA) sono molto vicine a quelle prodotte col più noto PET, ad esempio. Ergonomiche e simili alle tradizionali bottiglie d’acqua a scaffale, sono fatte di un materiale molto diffuso tra gli articoli per il food, soprattutto per la sua duttilità (ci fanno posate, buste per la spesa, pellicole per alimenti).
Sulle etichette sono descritte semplicemente come compostabili e biodegradabili, ma ovviamente la faccenda è un po’ più complessa.
L’effettivo livello “di degradabilità” dipende dalla tipologia di materiali utilizzati e dal loro smaltimento
Nonostante il prodotto sia realizzato con materiali di origine vegetale, non risulta essere direttamente “biodegradabile”. Lo diventa tramite uno smaltimento in idrolisi, ad una temperatura superiore ai 60° C e ad un’umidità superiore al 20%.
“Se la PLA finisce in una discarica, è sicuro che rimarrà lì per molto tempo. È improbabile che sia esposta a condizioni che l’aiuterebbero a dissolversi” fa notare il New York Times.
Anche i pack di carta riciclabile nascondono le loro insidie. Nonostante siano descritte come pienamente eco-sostenibili e attirino l’attenzione di grandi aziende come Absolut, Coca-Cola, Carlsberg e Johnnie Walker, il limite della loro degradabilità sta nella loro composizione.
Per risultare impermeabili e non essere danneggiate dal loro stesso contenuto, le paper bottle devono essere assemblate a strati di diverso materiale, compresa la plastica o la pellicola, e questo complica le cose.
Paper Water Bottle è una delle maggiori aziende produttrici di questo genere di packaging. Eppure la completa biodegradabilità delle loro confezioni è ancora un obiettivo da raggiungere. Risulta difficile immaginare che oggi i consumatori perdano tempo a separare gli strati delle bottiglie, ad esempio, prima di gettarli nella spazzatura.
Per un’effettiva biodegradabilità, le bottiglie di carta devono essere smaltite separando i diversi strati
E poi ci sono i contenitori in fibra di bagassa. Sempre più diffusi nei fast food di mezzo mondo, possono avere varie forme e contenere cibo da consumare velocemente a lavoro o fuori casa.
La bagassa è una fibra ricavata dalla lavorazione della canna da zucchero. Il suo aspetto semi-lavorato conferisce all’esperienza di consumo una piacevole nota green agli occhi del consumatore.
Per raggiungere un buon livello di compostabilità aziende come Sweetgreen e Chipotle hanno dovuto investire molto. Le ciotole inizialmente avevano rivelato tracce di PFAS, una famiglia di sostanze chimiche in grado di restare nell’ambiente anche dopo il compostaggio delle confezioni.
Oggi queste aziende produttrici sembrano aver fatto molti passi avanti.
Le confezioni andrebbero comunque smaltite in un processo dedicato – magari in bidoni presenti nei ristoranti – per evitare che finiscano in discarica dove difficilmente riuscirebbero a degradare.
In ottica di compostabilità, anche le confezioni in “fibra di bagassa” presentano molte difficoltà
Uno dei pack più innovativi e promettenti è quello in PHA (o poliidrossilcanoato), un polimero temoplastico sintetizzato da diversi tipi di batteri che ha la capacità di dissolversi in qualsiasi ambiente in pochi anni.
La Cove, una società produttrice di bottiglie in PHA, ha annunciato che a breve rilascerà sul mercato bottiglie smaltibili direttamente nelle discariche tradizionali. “Produrre il materiale in modo economico, tuttavia, è stata una enorme sfida tecnica”, precisa il quotidiano.
Le innovazioni descritte rappresentano comunque una piccola parte dei packaging “biodegradabili” attualmente in commercio. La maggior parte ha una probabilità relativamente bassa di dissolversi naturalmente, nonostante quanto suggerito dalle etichette.
Jenna Jambeck, professoressa d’Ingegneria della Georgia attualmente concentrata sull’impatto ambientale di materie come il PHA, si dice preoccupata: “Sono prodotti apparentemente rispettosi dell’ambiente, che però vengono creati e consegnati alle aziende senza una reale pianificazione del loro smaltimento e riciclaggio”.
Scatole di legno, cesti di papiro e anfore di terracotta. Impressionano ancora oggi per la loro funzionalità e per la grande attenzione ai dettagli.
Soprattutto per confezionare i suoi prodotti tecnologici. Per questo investe in ricerche e innovazioni, di cui l’azienda ha parlato in una recente guida online.
Quelle realizzate in cartone da un campione di surf americano, ad esempio. O quelle a nido d’ape di due gemelli della Cornovaglia.
Ce ne sono pochi nelle case, ma sono ovunque in molti settori del mercato, soprattutto nel campo degli alimenti freschi.